Cento dollari mal spesi per un laptop sociale

Appunti, idee sparse e non digerite sul progetto OLPC

Provo a fare qualche riflessione sul Contrappunto di Mantellini sul progetto One Laptop Per Child, sono idee da rimaneggiare e ricondurre a impianto più omogenero, un primo tentativo di ridurre la complessità del problema.

Un sogno, un problema?

Il problema è tipicamente anglosassone, datato e fuorviante. La trasposizione di modelli socio economici in contesti non comunicanti, come per esempio i paesi del terzo mondo, nei quali al di la di schemi sovraimpressi e fondamentalmente non assimilati, l’economia, la società e le strutture interpretative sono, usiamo una espressione forte “incommensurabile”, non può avvenire geometricamente.
C’è tutta una tradizione dell’antropologia culturale, anche un po’ pericolosa, che va sotto il nome di relativismo culturale, che si fonda proprio nel tentativo di contestualizzare l’approccio a una cultura differente.
Dare un computer da 100 dollari a un bambino del Congo, che a malapena è in grado di leggere e scrivere nella propria lingua, che vive perso in distanze che per noi sono incommensurabili, che senso ha? Riporto alcuni brani di una email di qualche tempo fa, in cui chiedevo a un amico, posto che mi conceda di chiamarlo amico, quale fosse la sua esperienza di lavoro in Mozambico, paese nel quale opera dal 1999:

Mecanhelas e’ in pratica grande più o meno come la provincia di Mantova (la mia provincia) La cittadina si trova circa al centro del “distorto” (che
sarebbe un poco come i nostri “Comuni” e mi fermo perche’ se continuo andiamo sul complicato 🙂
La comunità più lontana dista oltre 100km che nel tempo piovoso costringe ad un lungo giro (più o meno 200km) per raggiungerla con tutti i problemi connessi ed alcune anche più vicine sono irraggiungibili.

Le distanze, le difficoltà, il tessuto sociale ed economico hanno maglie incommensurabilmente più ampie rispetto a quelle cui noi siamo abituati e nel quale creiamo i beni di cui godiamo e li manuteniamo:

Per dedicarmi maggiormente all’officina che e’ stata quella che mi ha dato piu’ mal di testa. Il problema principale era la mancanza di pezzi di
ricambio a non meno di duecento chilometri. A duecento chilometri c’e’ una citta’ del Malawi dove si incontra quasi tutto ma necessita di organizzare il viaggio. Appena arrivato nel periodo di “ambientamento” ho visto varie volte partire due persone in bicicletta con alcuni pezzi meccanici che trasportavano come campione, per andare in Malawi via “lago”. Si! L’ho fatto anch’io due volte, si parte con la bicicletta ed in meno di un’ora sei al “porto” dopo aver passato un “posto di dogana” (beh! una “palhota de capin”) A volte ci si arriva con la macchina ma solo per alcuni mesi dell’anno. Ci si toglie le scarpe e arrotolano i patantaloni e si sale sul “barco” e dopo due ore circa di navigazione si e’ scaricati dall’altra parte 🙂

Ora, Lee Felsenstein si chiede

But what of the absence of reliable electrical power? OLPC statements refer to the hand-cranked generator included in each unit, having a ratio of 100:1 for operating time to crank time. For an optimistically low power drain of 1 watt this implies a 100 watt generator.

Non voglio rispondere io, da qui, lascio rispondere una citazione dalla stessa email:

L’alievo elettricista per impianti delle case era ed è restato un “tacco” ma non si può pretendere uno specialista in un paese dove l’elettricità è presente solo la sera dalle 18, se tutto va bene, alle 23 con generatore dell’amministrazione.

Ma allora, cosa ci stiamo dimenticando

Questo viene da chiedersi quando le buone intenzioni della società occidentale sembrano scosse dalla mancanza di pragmatismo che, tuttavia, è uno dei tratti distintivi del sogno americano. A questo punto, sono andato a riprendere un vecchio testo di sociologia, “Le vie della sociologia” di Franco Crespi, edizioni Il Mulino, che a pagina 35 riporta un paragrafo dal titolo interessante, “Le contraddizioni fondamentali della società umana”:

…possiamo definire in via di prima approssimazione, la società umana come un sistema determinato di relazioni reciproche mediate simbolicamente, tra individui dotati di autocoscienza.

…L’individuo umano per agire cooperativamente deve apprendere il suo ruolo sociale; de essere perciò persuaso ad aderire a certe regole…attraverso accordi intersoggettivi impliciti o espliciti, sempre relativamente arbitrarii, tra i diversi membri della società.

Quale è quindi la nostra aspettativa sociale di durata (Merton, Socially Expected Durations: A Case study of Concept Formation in Sociology, 1984) del fenomeno OLPC. Lo sviluppo di questo esperimento quanto condizionerà la nostra aspettativa sociale sulla durata di questo tipo di fenomeni?

Accennavo poc’anzi al pericolo del relativismo, che come dottrina forte tende ad avere il difetto di giustificare qualunque discorso culturale all’interno di un circolo chiuso di idee, motivandolo come derivato da una interpretazione della realtà nata all’interno di una specifica esperienza sociale e culturale. Come tema di fondo, però, come “avvertenza d’uso”, il relativismo culturale può dare un monito tanto di buon senso, da apparire quasi banale: La realtà viene definita all’interno di una costellazione semantica che deriva dai processi di inculturazione in cui un individuo e una società sono inseriti. Il mondo, e il modo di vedere le cose, in parole povere, dipendono anche dal modo in cui se ne parla. Di ciò ce ne accorgiamo ora con la società mass mediatica, in cui il senso delle cose viene ridefinito dal modo in cui se ne parla, Herskovits (Man and His Works, Kop, New York, 1948), ce ne parlava nel 1948.

OLPC come processo di acculturazione?

Mi viene in mente Franco Crespi (Mediazione Simbolica e Società, Franco Angeli, 1984), pag 12:

…a livello culturale l’immediatezza del determinismo istintuale appare decisamente compromessa e, le possibilità di soluzione essendo più elastiche e relativamente arbitrarie, il grado di prevedibilità dei comportamenti individuali e collettivi diminuisce nettamente.

Il progetto di portare un laptop a ogni bambino del terzo mondo a quale natura fa riferimento? Potremmo rifarci al tipico comportamento statunitense che ripropone l’esportazione geometrica di un modello, vedi quello della democrazia, senza alcun adattamento alle mediazioni socio culturali che reggono il gioco simbolico della vita nei paesi in cui vengono “imposti”?

Nel gioco Lacaniano fra il dicibile e l’indicibile, la verità rimane forse sepolta dietro i veli delle buone intenzioni, degli auspici, di una prospettiva di un futuro radioso che si lascia frettolosamente alle spalle le rovine del presente. Il “materialismo” dell’oggetto presente schiaccia letteralmente la dimensione simbolica, in senso lato, della società che dovrebbe accoglierlo e integrarlo in un procedimento che Beals e Hoijer (Introduzione all’antropologia culturale, Il Mulino, 1987) definirebbero aggiuntivo, cioè che aggiunge nuovi tratti culturali a quelli preesistenti, che il sogno americano vorrebbe sincretico, ma che forse finirebbe per divenire de-culturante.

Introdurre uno strumento tipico di una società fortemente caratterizzata dall’informazione, dalla mass medialità (intesa come disponibilità pervasiva dell’informazione), dalla quasi illimitata disponibilità di risorse per la creazione di infrastrutture, per la loro manutenzione, per la suddivisione di mezzi e strumenti, introdurre ciò in società caratterizzate da risorse limitate, illimitate ma la cui distribuzione è fortemente coartata, in cui la distribuzione di mezzi, strumenti e risorse, risponde a logiche al di fuori dei nostri modelli interpretativi sociali e culturali, in cui l’atto stesso della introduzione può assumere un significato differente rispetto ai nostri propositi. Tutto questo dove porta?

Non c’è dubbio che portare un computer, anche se a manovella, cosa che a noi fa subito balzare alla mente bizzarre immagini dei nostri bisnonni alle prese con la “macchina del capo”, in luoghi in cui le dimensioni geografiche sono enormemente dilatate dalla struttura delle relazioni sociali, crea ben un problema. Non siamo, sicuramente, nella bassa baviera, in cui l’elettricità è un bene dato per scontato, il vicino ha più elettrodomestici di quanto tu ti sia preso lo sfizio di acquistare e in cui la distanza fra il tuo portatile e il primo centro di assistenza è quantificabile in pochi chilometri. No, e nemmeno abbiamo, qui, la stessa disponibilità di risorse accumulate, cioè non direttamente coinvolte nei processi di sussistenza, da impiegare nella riparazione dell’oggetto.

Siamo in paesi in cui, quando ci va bene, ci troviamo nelle condizioni del Brasile, la dove uscire da un centro abitato significa non solo trovarsi con una radio ammutolita, ma con il cellulare disconnesso e, per interminabili chilometri senza alcuna assistenza, tutela, sicurezza. Per converso, trovarsi in una grande città può significare essere depredati di un semplice paio di scarpe, non dico di un computer. Si, nelle grandi città c’è internet, ci sono computer, c’è uno stile di vita e un miraggio tipicamente americani, c’è anche Telecom Italia, volendo. Ma cosa se ne dovrebbero fare i bambini di un computer a manovella, per di più con un sistema operativo che non li mette nelle condizioni di passare velocemente nel mercato del lavoro, qualora se ne facessero qualcosa del portatile. Linux va benissimo per apprendere, benissimo per amministrare, non ci fai molto però in grandi aziende nelle quali i programmi di CRM, SAP e quant’altro non girano su un portatile a rotelle e non sul tuo sistema operativo.

Ora, il tutto può essere raffigurato nel donare una cadillac a tutti. Cosa me ne faccio di una cadillac, se non ho pompe di benzina, se non ho strade praticabili, se non ci sono officine per l’assistenza e nemmeno i soldi per pagare tutto questo. A ben vedere, mancano anche i soldi per mangiare, ma questo nei sogni non trova mai posto.

Quindi, dare il via a un progetto come OLPC significa dare il via a un cambiamento strutturale, economico e sociale estremamente radicale nei paesi in cui viene messo in atto.

Questo poteva essere fatto per l’agricultura, e ci ritroviamo con le monoculture intensive che hanno ridotto interi paesi allo stato di dipendenza economica.

Poteva essere fatto per il manifatturiero e industriale, ma questo ora sta avvenendo nei paesi a noi limitrofi e, comunque, maggiormente strutturati e industrializzati del terzo mondo.

Poteva essere fatto in campo informatico. Beh, si, in effetti è già stato fatto in passato, con l’India, l’India dalla grande tradizione informatica, nella quale i grandi campus informatici sono sorti in mezzo al nulla. E li, sono cresciuti gli informatici, i tecnici, i programmatori, manodopera ad alto rendimento e a basso costo. Insomma, una monocultura del terziario che fino a pochi anni fa ha permesso l'”esternalizzazione” dei servizi, spostandoli oltre oceano, la dove un buon inglese era comunque parlato, ma alla fine ben meno pagato.

E ora, dove vogliamo andare, domani?