E vissero tutti giornalisti e contenti

Sono un consumatore atipico di BarCamp o forse tipico, chissà. Sta di fatto che allo ZenaCamp ho fatto di tutto, tranne che seguire gli interventi della giornata, passando il tempo a conoscere qualcuno, a parlare con qualcun altro, a gironzolare con altri ancora.

Interventi, tutti evitati tranne uno. Eh, si, mi sono seduto comodamente su una sedia ad ascoltare Stefano Epifani illustrare il progetto BlogLab e gli obiettivi che questo si prefigge.

L’idea è interessante, creare delle figure professionali, comunicatori inseriti nelle realtà aziendali, che sappiano non solo utilizzare gli strumenti messi a disposizione dalla rete ma che, forse, siano coscientemente disposti a sottoscrivere quelle 95 tesi di sapore Luterano che vanno sotto il nome di Cluetrain Manifesto.

Bene, i mercati sono conversazioni e i consumatori non sono soggetti passivi ma interlocutori.

Tutto bene ma. Ma, appunto.

Ascoltare Stefano è stata un’esperienza da compiere a occhi chiusi, dimentichi del padrone di casa, intenti ad ascoltare unicamente le parole pronunciate, lasciando da parte la naturale simpatia per chi si ha di fronte.

Eh, si. Esperienza interessante perché inconsciamente, ne sono certo, Stefano non stava descrivendo la nuova figura del comunicatore aziendale, diciamola così, un po’ semplicisticamente. Quello che ne è venuto fuori è un interessante ritratto delle aspirazioni di non pochi blogger in giro per la rete.

Il professionista deve sapere verificare le fonti, girare per la strada, consumare la suola delle scarpe, fra le pubblicazioni più interessanti vi sono gli urban blog, esempi di citizen journalism, utili, interessanti, creativi, fondamentali per “farsi le ossa” in un ambiente in cui la notizia va cercata attivamente.

Bene, nulla di male. Tranne che questa è la descrizione dei miti fondanti del giornalismo, non della comunicazione.

Bene, ogni fede ha la propria epica, i propri miti. E’ giusto che vi siano e che siano riconosciuti tali, che si propongano come archetipi e proprio per questo siano irraggiungibili ma allo stesso tempo costituiscano una condizione ideale alla quale aspirare. Il tutto, lo ripeto, avendo consapevolmente ben presente che si tratta di miti, di idee guida, di una sorta di dirittura etica da seguire.

Ora, che Stefano sia più o meno inconsciamente legato a questa idea, peraltro nobile, della comunicazione, ci può stare, anzi. Che, poi, nella pratica, persegua un diverso orientamento, ne sono moderatamente fiducioso.

Comunicare, in azienda, non è, a mio avviso, fare giornalismo, tanto meno cronaca. Appiattire la figura di chi all’interno di un ambiente professionale debba coltivare la comunicazione, all’interno di una struttura, verso l’esterno, di prodotto, di evento, di quello che volete voi, appiattire questa ricchezza sull’archetipo del cronista, beh, mi pare davvero riduttivo.

Se nel caso di Epifani, poco mi preoccupo, data la fiducia di cui gli dò credito (e di cui non ha bisogno, né ragione), il problema saltella fuori a pié pari nel momento in cui mi guardo attorno e inizio a osservare quei blogger che, in un modo o nell’altro, aspirano a creare un’opinione, i cui blog non si trastullano di facezie ma contengono elzeviri e libelli in corto che affrontano temi alati, che volano al di sopra delle teste di molti, e quotidiane avventure della “gente” che farebbe meglio a leggere quanto essi scrivono.

Ora, gira e rigira, quello che una volta era un impegno reale dell’attività di una coscienza mediamente illuminata, diventa ora lo strumento per l’appagamento di un desiderio. Il blogger, nasce blogger e desidera morire giornalista. O meglio, desidera spogliarsi del blog per diventare un opinion maker mainstream.

E così abbiamo introdotto un altro di quei termini che costituiscono il mito e l’oggetto del desiderio di alcuni, non tutti, i blogger, ovvero diventare mainstream. Il che, dalle nostre parti, significa accodarsi a qualche giornale o a qualche televisione, meglio se nazionale. Anzi, visto che nella televisione di questi tempi vanno soprattutto tette, culi e occhiali dalle montature improbabili, vale la prima, che una trafiletto in quinta non lo si nega quasi a nessuno.

Ce n’è bisogno? Si e no.

Ogni fede ha bisogno di un mito fondante che ne costituisca un’apertura di legittimità, che dia un senso a ciò che si sta facendo. E che il tema della legittimità attanagli più di un blogger, legato a doppio filo con quello dell’autorevolezza, non è cosa nuova.

Perché scriviamo. E perché dovrebbero stare a leggerci? Perché siamo autorevoli, perché i link al nostro blog pesano, perché le visite contano, perché commentiamo, parliamo, dispensiamo opinioni.

Ma lo facciamo più assiduamente e meglio dei giornalisti, non lo facciamo per denaro, non siamo costretti in una consorteria, non siamo inquadrati e ordinati. Siamo come i giornalisti, ma meglio, con un piede qua e uno là, traendo il meglio di ogni cosa, così competenti da poter dirne di ogni, come un giornalista, così puri da non poter essere adombrati da alcun sospetto.

Questo, almeno, fino a che qualcuno non riuscirà a diventare…mainstream e a prendere ordinatamente il suo tesserino, redivivo Brosio sui marciapiedi della cronaca.

E’ forse la maledizione del mito della stampa, che straripa e dilaga, seducendo e allettando, divorando come Crono i propri figli, la poiesis, la creazione di uno spazio autonomo di legittimità nel quale chi scrive è libero di farlo, creandosi i propri miti, le proprie giustificazioni.

Ed è la creatività, come ricordano alcune anime belle, il fondamento del lavoro inteso come libera espressione dell’animo umano, attività poietica che crea per il piacere di creare, non per un bisogno che risieda al di fuori dell’atto stesso, in un pantheon altro, alieno.

Il lavoro è la libera espressione dell’animo umano, il post un po’ meno.

4 Risposte a “E vissero tutti giornalisti e contenti”

  1. Carissimo,
    sono perfettamente d’accordo con te; il lavoro del comunicatore d’azienda è profondamente diverso da quello del giornalismo. come il giornalista fa un lavoro diverso dal PR e così via.. tutti, però, devono sapere usare degli strumenti, comprenderne potenzialità e limiti, capire in che contesto sono inseriti e come vengono percepiti dagli utenti. Questo, in sintesi, vogliamo fare con BlogLag!

    un saluto! 🙂

  2. Concordo. Infatti quello che mi premeva evidenziare è come il paradigma del giornalismo catturi a livello inconscio utenti a differenti livelli.

    Tu vuoi formare dei comunicatori, ma ascoltandoti balzava fuori l’immagine del giornalista.

    E’ un “condizionamento” inconscio, a mio avviso, che affeziona parecchia gente, la quale considera come apertura di legittimità lo stesso mito fondante del giornalismo di strada.

  3. Il lavoro è libero?
    Non so. Il volontariato, forse. Ma poi il blog è volontario eppure “incatenato”. E come scriveva eiò di recente, neanche a chi scrive libri va meglio.
    Mah!
    A me lavorare di sabato dà sui nervi, io so solo questo. Un concettino che non è buono neanche per un opinion leader!
    8)

  4. Eheheheh, la mia era un citazione classica per stigmatizzare un andazzo poco piacevole fra i wanna be journalist.

    Io sono dell’opinione che il lavoro debilita l’uomo, a qualunque ora e in qualunque giorno.

    Il mio discorso è differente. Vorrei che chi scrive un blog volendo affrontare temi poco leggeri lo facesse senza avere di fronte lo spettro del giornalismo come pietra di paragone. O pietra dello scandalo?

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